Vallo della Lucania: padre avvelena i gattini della figlia
Un uomo entra al supermercato, e al momento dell’acquisto di una buona quantità di macinato dichiara di volerla utilizzare per uccidere i gattini della figlia. Gli danno il tormento e se ne deve liberare, dice.
Purtroppo non è una scena surreale tratta da qualche libro dai toni crudi. E’ accaduto davvero, a Vallo della Lucania, in provincia di Salerno. E sul serio, lo hanno preso anche i clienti del negozio, che si sono affrettati a chiamare i carabinieri e le associazioni animali. Purtroppo, nonostante le ottime intenzioni, niente ha potuto salvare i sette poveri mici.
Che non solo, hanno constatato le forze dell’ordine e l’Asl, sono stati avvelenati, ma anche lanciati nel cortile dopo il fattaccio, come fossero solo cose. Messo di fronte al fatto compiuto, l’uomo ha dichiarato di aver ucciso in precedenza anche altri gatti, peraltro di fronte a moglie e figlia.
Inutile cercare di mettere in parole l’amarezza per questo epilogo, e commenti a riguardo ce ne sono davvero pochi da fare. Quello che però inquieta e spaventa davvero è la maniera candida e totalmente anaffettiva e priva di empatia in cui si è comportato l’assassino di gatti.
Partiamo dal suo ruolo famigliare di padre: possibile che a questa persona sia mancata completamente una qualsiasi sensibilità verso la figlia? Possibile che se davvero non voleva più i gatti intorno non si potesse parlarne o, almeno, farli sparire senza ucciderli così barbaramente? Non che sarebbe stato encomiabile, sia chiaro, ma almeno i poveri gatti avrebbero avuto un’altra chance. Invece, costui ha dimostrato totale indifferenza verso i sentimenti di una figlia, il che è patologico di per sé.
Secondariamente, ma neanche tanto, vedere qualcuno entrare in uno spazio pubblico dichiarando apertamente intenzioni del genere mette i brividi. Indica chiaramente due cose: una totale indifferenza verso la legislazione e una completa assenza di consapevolezza di cosa significhi mettere fine a una vita. O, e non si sa cosa sia peggio, è chiaro segno che da chi parla gli animali non sono considerati esseri viventi: soltanto questo può spiegare come sia possibile parlare di morte come bere un bicchier d’acqua.
La terza raccapricciante circostanza riguarda il metodo di esecuzione prescelto e in particolare la totale mancanza di rispetto verso i corpicini: come abbiamo detto, gettati in cortile dopo l’avvelenamento. I gesti dell’uomo rivelano una rabbia profonda verso gli animali. Non sappiamo che genere di vita conducessero in famiglia, come fosse gestita la convivenza con gli animali, ma importa relativamente: non esiste circostanza che giustifichi soluzioni tanto barbare verso un problema. Ancora più perché, mentre i torti causati da una persona possono essere profondi tanto da toccare corde atte a spingere a una violenza, un animale può al massimo essere male educato alla convivenza e provocare irritazione.
Sarebbe, certo, interessante sapere che “tormento” dessero al capofamiglia quei poveri gatti. Quello che è sicuro è che, agli occhi della profana che scrive, in una rabbia tanto profonda e in un’assenza di empatia totale come quelle descritte si annida certamente una patologia o un disturbo della personalità che sarebbe il caso di esaminare.