Fiabe: “La gatta che non poteva essere uccisa”

La fiaba indiana che state per leggere è nota come “La gatta che non poteva essere uccisa”.

Tutto comincia con la faida più classica del mondo: una faida tra una gatta e un cane. Il cane tenta continuamente di ferire la gatta, ma nonostante i colpi la raggiungano lei non sembra soffrirne. Al contrario: sbeffeggia il cane a più non posso ricordandogli che non può ferirla. Esasperato, il cane si decide a chiedere consiglio ad altri animali.

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Uno storno gli consiglia di mordere il muso e le orecchie della gatta: la quale, però, danza attorno al cane ridendo e schernendolo, persino ringraziandolo perché ora, grazie a lui, potrà indossare un paio di orecchini e un anello al naso.

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Scoraggiato, il cane si rassegna ad affidare l’impresa ad un elefante. L’elefante lancia la gatta per aria, la calpesta, ma niente sortisce l’effetto sperato né spezza il suo temperamento sfrontato. Il grosso pachiderma, spaventato, avvisa il cane: la gatta è probabilmente della tribù della tigre e in quanto tale pericolosa.

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Tuttavia, il cane si rifiuta di ascoltare e questa volta incarica un leopardo di uccidere la gatta, promettendogli qualsiasi ricompensa se riuscirà ad accontentarlo. Quando il leopardo si avvicina, la gatta lo precede prima che possa fare qualsiasi mossa: esprimendo volontà di parlargli, gli offre un patto. Gli procurerà qualcosa da mangiare, e il leopardo la ascolterà. Tuttavia quando il leopardo accetta, lei mette in atto il suo inganno: si allontana, come in cerca del pasto del grande felino, e soltanto dopo lo schernisce. Ribadisce che non solo non gli offrirà nulla, ma che non è riuscito a ucciderla. Il leopardo è ovviamente indispettito, ma anche pronto a riconoscere l’intelligenza della gatta.

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E’ ora il turno dell’orso, che perfora la carne del gatto con le sue unghie letali ma, da parte della gatta, ottiene soltanto un graffio al naso tanto profondo da ucciderlo. La gatta quindi non solo passa al contrattacco uscendone illesa, ma uccide il suo rivale.

E così quando il regno animale ha fallito, il cane si rivolge a un uomo. Costui usa un coltello per aprirle lo stomaco, ma così come tutto il resto anche questo non sortisce effetto in quanto la ferita si richiude. Il cane, ormai sconfitto e demoralizzato, passa i giorni che gli restano da vivere macerato nell’avvilimento e chiude gli occhi sul mondo rintanato in una buca e ignorato da tutti.

La morale di questa fiaba, probabilmente, è che a lasciarsi prendere troppo dall’odio si finisce per consumare solo se stessi, e se poi l’oggetto del nostro odio è invulnerabile ai nostri attacchi, vuoi per la sua posizione vuoi perché è fermamente deciso a non farsi rovinare la vita, manca qualsiasi genere di soddisfazione. In fondo, si tratta solo di scegliere le proprie cause con attenzione. O forse dovremmo imparare dalla gatta e ignorare chi abbaia, abbaia ma non può toccarci?