Il triste destino dei gatti di Procida ai tempi del dominio di Carlo III di Borbone
La curiosità uccide il gatto, recita un proverbio. E noi, che curiosiamo per il web in cerca di notizie da narrarvi, in questa avremmo preferito non incappare. Forse a essere nociva ai gatti è davvero la curiosità, talvolta, ma anche un certo monarca del ‘700 non scherza. Oggi vi raccontiamo l’odio verso i gatti di Carlo III di Borbone, all’epoca re di Spagna e delle Due Sicilie.
Uno dei tratti che ha portato più fortuna al gatto, rendendolo prezioso per l’uomo e antidoto naturale contro i topi, è il suo istinto alla caccia. La stessa caratteristica lo ha però reso intollerabile a Carlo III di Borbone… in quanto suo diretto concorrente nel suo passatempo preferito, la caccia al fagiano.
I fatti accaduti a Procida, isola parte dell’allora regno delle Due Sicilie, testimoniano perfettamente queste affermazioni e sono narrati nella cronaca storica I Borboni di Napoli di Alexandre Dumas. Pare che già prima del 1755 fosse in uso una barbara direttiva a danno dei gatti.
Carlo III di Borbone era, per l’appunto, un gran appassionato di caccia, in particolare di quella al fagiano. E proprio per questo amava in modo particolare l’isola di Procida, dove questo animale prosperava con facilità.
Questa naturale inclinazione, però, non bastava al sovrano, che ordinò di requisire tutti gli esemplari del volatile e affidarli a persone fidate e prescelte affinché li tenessero in custodia, e li liberassero solo a suo ordine per soddisfare il suo divertimento, e a nessun altro era permesso cacciarli. Fu persino fatto un censimento: se ne contarono 99, a un certo punto di questa storia.
Tuttavia, come è facile immaginare non è così semplice gestire un uccello selvatico, e soprattutto non è facile impedire a un predatore naturale, come è il gatto, di seguire la propria natura. Così, Carlo III escogitò una soluzione semplice quanto crudele: ai procidani non sarebbe più stato permesso detenere gatti. Chi si opponeva e venisse scoperto, poi, riceveva pene esemplari.
Purtroppo, i gatti non vennero spostati altrove, ma furono proprio condannati a morte, anche quelli che non uscivano mai di casa e non avevano il permesso di vagare liberi per l’isola.
Particolarmente triste è la storia di tre gatte, accudite presso il Conservatorio delle Orfane. Al sacerdote D. Tomaso Ferrara fu ordinato di riferire a Suor Sebastiana Willar, madre superiora del Conservatorio, dell’ordine di consegnare le tre gatte. In risposta, venne richiesta una dispensazione, un’eccezione, in quanto le tre micie vivevano all’interno dell’edificio e non avevano perciò modo di cacciare animali selvatici. Ogni supplica fu inutile, anche in questo caso particolare.
Non è andata meglio a un uomo che, per affezione e per la sua utilità nella caccia ai roditori, aveva nascosto il suo gatto alle autorità. Scoperto, “fu denunciato, imprigionato, convinto e condannato alla frusta per mano del carnefice, fu fatto andare per l’isola col suo gatto appeso al collo e venne mandato poscia alle galere”.
Infine, è stato documentato il caso dei Domenicani di SM Margherita, che dovettero anch’essi consegnare il gatto “tutto bianco con una macchia cannellina sul capo” che avevano adottato.
A questo punto, l’opinione storica si divide. I ratti ebbero tale libero regno da mangiare vivo un neonato, e che Procida in aperta ribellione minacciò di autoconsegnarsi ai pirati barbareschi se l’editto contro i gatti non fosse stato revocato. Secondo alcuni, ciò convinse Carlo III ad abolire questa barbara pratica; altri sostengono che a nulla servì, e anzi l’editto rimase in vigore per tutto il periodo in cui regnarono i Borbone.
Chissà se l’odio verso i gatti di Carlo III di Borbone fu mitigato davvero dalla determinazione dei cittadini o se a Procida per molto tempo ancora questi felini sperimentarono un secondo Medioevo…