Khan il Maine Coon
Il rapporto tra la scrittura e il gatto ha una storia secolare, tradottasi anche in numerosi romanzi in cui un felino è il vero e proprio protagonista. Qui parliamo di un romanzo in lingua inglese, purtroppo ancora privo di una traduzione italiana: Khan, a Maine Coon di Marie J. S. Phillips (2011, Marie J. S. Phillips & Lulu.com).
Il romanzo racconta, mischiando elementi fittizi a fatti realmente accaduti, la storia del Maine Coon di nome Khan. Si tratta di un gatto realmente esistito, uno dei mici dell’autrice, reso protagonista di due libri, tra cui appunto Khan, a Maine Coon.
La storia di Khan inizia nel più triste dei modi, con un abbandono presso un rifugio per animali. La sua permanenza al rifugio viene infarcita con dialoghi tra lui e altri gatti, ma fa riferimento, in una critica neanche troppo velata espressa attraverso il terrore di Khan, alla barbara pratica dell’eutanasia dei rifugi americani. Dell’eutanasia, chiamata “big sleep” (“grande sonno”) nel libro resta vittima un gatto di strada maschio con cui Khan fa amicizia. Khan stesso si salva per un pelo quando viene adottato da un signore gentile.
Nonostante tutto, per Khan non è facile abituarsi a vivere nella nuova casa, tormentato com’è dal destino dei suoi compagni di rifugio e ancora sofferente per l’abbandono subito in precedenza. Tutti questi sentimenti sono trasmessi sia tramite dialoghi tra gatti che tramite il semplice descrittivo. E’ chiaro quindi come il tono semi-fittizio del romanzo abbia la sola funzione di tradurre in una forma diversa dalla narrazione impersonale tutta la tristezza di un abbandono e la difficoltà ad abituarsi a un luogo e umani nuovi. Quello che, insomma, l’autrice rimarca è la sensibilità dei gatti, ben lungi dall’essere solo peluche o solo “bestie” senza sentimenti come qualcuno ancora purtroppo ritiene.
E tuttavia l’amore tutto guarisce, perché col tempo Khan si lega indissolubilmente ai suoi compagni felini e alla sua mamma umana. Al punto da, quando una brutta malattia ha la meglio su di lui dopo una lunga lotta, morire nel corpo ma riuscire ad allontanare la morte dell’anima, definita come “vortex” (“vortice”), per qualche tempo ancora. Khan, invisibile agli umani ma non ai gatti di casa, aleggia incorporeo accanto all’amata famiglia per qualche tempo, dormendo con la mamma umana ogni sera, soffrendo nel vederla piangere la sua morte senza poterla confortare.
E che dire, quante volte è successo a noi di sentire che il nostro amico a quattro zampe fosse ancora con noi e non se ne fosse davvero andato?
La morte è però, si sa, nella natura delle cose e neanche Khan può resistervi a lungo. Il micio prima protesta, gridando che non vuole rinascere e non vuole un’altra famiglia, ma alla fine vi soccombe, giurando che sarebbe tornato presto o tardi. E forse l’amore davvero è più forte della morte. Khan diventa Kai il cucciolo, un essere del tutto nuovo che però porta con sé l’animo e i ricordi del defunto Khan; riconosce i vecchi compagni felini uno per uno e da loro si fa riconoscere, per primi. E col tempo neanche alla sua mamma umana può sfuggire la somiglianza. La reincarnazione ha purtroppo il suo prezzo, perché il povero Kai è costretto ad assistere alla scomparsa per vecchiaia, uno ad uno, dei vecchi compagni, e riconoscerne l’essenza in un gattina che purtroppo non è destinata a rimanergli accanto.
Sembra davvero, leggendo, che l’autrice abbia voluto dare voce ai pensieri dei suoi mici: dare loro la voce che non hanno, una mancanza che marchia indissolubilmente gli animali al silenzio anche quando oggetto di maltrattamento. E’ quindi un grande dono, quello fatto a Khan e i suoi compagni. Un dono che non potrebbe venire che da una mamma.
Il libro è disponibile per l’acquisto qui, e consultabile parzialmente su questa pagina di Google Books. Ancora, purtroppo, non tradotto, come detto: una mancanza a cui, si spera, presto venga data soluzione.